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Non è un paese per scienziati, ma per stronzi berlusconci
(troppo vecchio per rispondere)
ernesto
2010-10-16 14:35:40 UTC
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Non è un paese per scienziati, ma per stronzi

Nei centocinquantesimo anniversario dell'unità d'Italia la storia dei
talenti nostrani non sembra essere cambiata da quando i vari Antonio
Pacinotti e Antonio Meucci giravano il mondo per far valere le proprie
idee, spesso facendosi rubare i brevetti delle loro scoperte

Per reagire al cappio di Trebondi-Giulmini che strangola teatri e
atenei, i luminari del Sum (da non confondersi col Suv: Sum sta per
Istituto di scienze umane) hanno radunato alla Bicocca di Milano gli
stati generali dell’intellighenzia nazionale in una maratona di due
giorni dallo stuzzicante titolo “Idee italiane. Un osservatorio sulla
cultura del Paese”, che si conclude oggi.

Tra i partecipanti Gae Aulenti, Pupi Avati, Giulia Maria Crespi,
Umberto Eco, Ernesto Galli della Loggia, Vittorio Gregotti, Stefano
Rodotà. Tutte persone degnissime, cervelli che il mondo ci invidia.
Unico neo, l’età media: settant’anni e passa. Nell’Auditorium Pirelli,
costruito da Gregotti per quell’intrepido capitano di industria che
risponde al nome di Marco Tronchetti Provera, ieri si aspettava con
ansia l’intervento di una delle più fresche promesse della scena
culturale: Vittorio Sgarbi.

Sempre gli stessi nomi e volti

E poi Tremonti dice che Carmina non dant panem. Altro che, lo danno
eccome, ma sempre agli stessi. Una cultura con molte rughe, strozzata
da una politica con la blefaroplastica e il parrucchino: questo è il
paradosso dell’Italia, il cortocircuito perverso che condanna il Paese
alla stagnazione. Sai a cosa servono le chiamate alle armi di Fumaroli
contro la “cultura di massa” (peraltro sdoganata a suo tempo da un
guru della sinistra come Eco), gli strilli contro i tagli del governo,
le tirate sulle “questioni ineludibili”, la società liquida, le
connessioni comparative, la ricostruzione dei contesti, gli appelli al
superamento della mai abbastanza esecrata “autoreferenzialità”. In
questa terra non più di santi e poeti, ma di sarti, palazzinari e
cognati, l’accademia è prigioniera di vecchi rituali corporativi e chi
ha talento, soprattutto in campo scientifico, viene tenuto ai margini
o costretto all’esilio. Alla Bicocca ci sarebbe piaciuto ascoltare
qualcuno di quei tanti italiani under 40 che si fanno onore al Cern di
Ginevra, al Mit o al Caltech: forse qualche ideuzza ce l’avevano. Ma
quelli, alla corte di Tronchetti, come ad Arcore o a Palazzo Grazioli,
è raro incontrarli.
È una storia che parte da lontano.

Come ci raccontano Angelo Guerraggio e Pietro Nastasi in un puntuale
saggio appena uscito da Bruno Mondadori (L’Italia degli scienziati,
pagg. 326, euro 22), nel secolo e mezzo dall’unità nazionale, di geni
e di inventori ne sono spuntati parecchi e molti di loro hanno dato un
apporto non trascurabile alla crescita del Paese. Peccato che nei
libri di storia non vengano quasi mai menzionati, anche perché
politici, vescovi e burocrati hanno fatto di tutto per tarpargli le
ali, nella maggior parte dei casi con successo.

Prendete Antonio Pacinotti, pioniere dell’elettricità. Non ha ancora
compiuto vent’anni, nel 1860, quando di ritorno a Pisa dai campi di
battaglia della Seconda guerra d’indipendenza si mette a trafficare
nel laboratorio del papà fisico e riesce a costruire una piccola
macchina in grado di produrre corrente continua. La “macchinetta
elettromagnetica”, come la chiama lui, meglio nota come “anello di
Pacinotti”, è insieme una dinamo e un motore elettrico: consiste in un
anello avviluppato in una spirale di filo di rame, che ruota tra i due
poli di un’elettrocalamita e produce col suo moto rotatorio una
corrente nel filo.
Cinque anni dopo, il ragazzo prodigio fa un viaggio in Europa per
conto del ministro della Marina e intanto cerca di propagandare la sua
creatura.
Se ne pentirà amaramente, perché a Parigi un certo Gramme gliela ruba
e la lancia sul mercato come propria.
Del resto, a quell’epoca la nostra legge sui brevetti non proteggeva
le invenzioni che non portassero a un prodotto industriale nel giro di
uno o due anni e “l’anello” era ben lontano da questo traguardo.
Nell’Italia appena unificata mancano industrie, capitali e
imprenditorialità capaci di cogliere la portata dell’innovazione. E
anche l’ambiente scientifico tarda a reagire, benché il padre di
Antonio fosse un pezzo grosso dell’Università di Pisa.
Tanto che quando, nel 1882, viene presentata la candidatura di
Pacinotti all’Accademia dei Lincei, Quintino Sella commenta
amaramente: “Non abbiamo apprezzato questa scoperta quando fu
annunciata. Ora che tutta l’Europa gli rende onore, l’Italia deve
stare indietro?”.

Per lo meno a Pacinotti è stata risparmiata l’odissea del povero
Meucci, cui soltanto otto anni fa il Congresso degli Stati Uniti ha
ufficialmente riconosciuto la paternità del telefono e che in vita
dovette patire la fame e campare di elemosine mentre il rivale Bell
diventava miliardario.

La parabola di un galileiano

Ma anche Galileo Ferraris, che di Pacinotti era stato allievo, andò
incontro a una cocente umiliazione nel 1888, quando il suo “campo
magnetico rotante” fu acchiappato dall’americano Nikola Tesla per
depositare ben cinque brevetti di motori elettrici asincroni, subito
acquistati dalla Westinghouse.

Ma a differenza del maestro, il professore piemontese la prende con
filosofia: “Chi nelle ricerche scientifiche avesse sempre di mira le
applicazioni – scrive – non troverebbe mai nulla; e chi nel giudicare
l’importanza di una scoperta non sapesse veder altro che l’utilità che
essa può avere, proverebbe di non aver gustato mai la vera gioia del
sapere”.

E in un’altra occasione confesserà: “Ho visto che tutti attribuiscono
a me la prima idea. Gli altri facciano pure i denari, a me basta quel
che mi spetta, il nome”. A lui, forse, ma i suoi poveri compatrioti,
che se ne fanno del nome, se non vedono i denari?

Queste vicende, come scrivono Guerraggio e Nastasi, confermano che
alla fine dell’Ottocento l’Italia era ancora un paese estremamente
giovane. “Terminata la fase di euforia per il raggiungimento
dell’Unità, iniziano a emergere i problemi. Dalla poesia si passa alla
prosa: il contesto sociale prende a condizionare, quasi come un freno,
l’ambiente scientifico. La cultura industriale del paese e il suo
apparato produttivo non sono ancora pronti a stimolare la ricerca e a
recepire nel migliore dei modi alcune invenzioni geniali”.

A più di un secolo di distanza, in quella che nel frattempo si vanta
di essere diventata la quinta potenza industriale del mondo, la musica
non è molto cambiata.

Chi fa ricerca continua ad avere vita dura. Del resto c’è abituato.
Nel corso del Novecento, gli scienziati italiani hanno dovuto fare i
conti prima con le leggi razziali che hanno espulso dal paese molti
dei migliori cervelli, poi con le logiche spartitorie del sottogoverno
democristiano e socialista, poi con le farneticazioni del Sessantotto
e le lotte sindacali, per ritrovarsi oggi stretti a tenaglia tra i
veti del Vaticano, le leggi repressive sulle staminali e gli ogm, gli
intrallazzi delle baronie universitarie e un ceto di governo più
interessato agli appalti e alle televisioni che alla ricerca e alla
crescita culturale del paese. Il libro di Guerraggio e Nastasi si
conclude con una sfilata di premi Nobel nostrani, da Emilio Segrè a
Riccardo Giacconi.

Sarà un caso che, a parte Giulio Natta, hanno fatto tutti carriera
lontano dall’Italia?
C***@fastwebnet.it
2010-10-23 08:54:39 UTC
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<"ernesto" <***@gmail.com> ha scritto nel messaggio news:5e6cf898-a8b9-4267-afd3-<***@w19g2000yqb.googlegroups.com...
<Non è un paese per scienziati, ma per stronzi

<Nei centocinquantesimo anniversario dell'unità d'Italia la storia dei
<talenti nostrani non sembra essere cambiata da quando i vari Antonio
<Pacinotti e Antonio Meucci giravano il mondo per far valere le proprie
<idee, spesso facendosi rubare i brevetti delle loro scoperte

Dalle numerose e documentate indagini su oltre 20 anni, è risultato ad un
tal inventore Romano De Simone, che i brevetti Italiani sono
sistematicamente rubati per azione di una Mafia Potente e Sovranazionale,
protetta dai Poteri Occulti alla "Marcinkus" e contorni, del Vaticano, con
la piena collaborazione dei Servizi Segreti Italiani, alleati alla Mafia,
dal 1990.

Si sono salvati solo Marconi, che era lontano da Roma, sede Vaticana, e
Fermi, che era imparentato con Ebrei Romani, che lo hanno fatto emigrare.

Ettore Majorana è sparito dopo essere entrato in contatto con agenti
stranieri, in un viagigo su traghetto....

ERa ben controllato a Roma, perché stava a Roma.

ROMA LADRONA ????

Non Solo !!!!!!!!!

ANCHE ASSASSINA !!!!!!!!!!!!!!!!

Tanto basti per capire con chi abbiamo a che fare nella situazione attuale.

Esiste una causa in merito a questo, alla Corte Europe dei Diriti Umani a
Strasburgo, per un risarcimento danni, richiesto per 54 miliardi di lire
circa, per il furto di un brevetto mondiale, con persecuzione dell'inventore
da parte del Vaticano e dello Stato Italiano, che ne è succube.

Ma è importante sapere che.......
UNICO STATO IN EUROPA, CHE NON RICONOSCE LA CORTE DEI DIRITTI
UMANI,

è....


Il Vaticano .......................................................

Che però continua a predicare contro la Mafia,. ed a gestire capitali di
non si sa chi.....................

Grazie Papa !!!!!!!!!!.

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