pirex
2010-05-11 22:30:33 UTC
Il Nord, visto da Sud, è Caino:
da lì vennero quelli che, dicendosi fratelli, compirono al
Sud, a scopo di rapina, il massacro più imponente mai subito
da queste regioni (e sì che di barbari ne sono passati).
I musei del Risorgimento, nota Mario Isnenghi, nella sua
Breve storia dell’Italia unita a uso dei perplessi, sono
quasi tutti al Centro o al Nord.
Il Nord è dove ho lavorato anni e ho amici, ed è casa mia;
come il Sud, dove sono nato;
o il Centro, dove abito.
Gl’italiani vanno al Nord in cerca di soldi;
al Sud in cerca dell’anima.
All’estero smettono di essere meridionali o settentrionali e
diventano solo italiani (indistintamente, nel pregiudizio
altrui, geni e farabutti).
Il Sud, visto da Nord, è L’inferno, titolo del libro di
Giorgio Bocca che nel 2008 ha scritto sul «Venerdì» di
«Repubblica », non so quanto provocatoriamente:
«Sì, è vero, sono un antimeridionale... Passo per razzista,
e forse lo sono».
Nessuno vi trovò da ridire:
è o no il Sud, nella geografia, anche morale, il luogo del
male?
Del male senza possibilità di redenzione:
ché questo è l’inferno, congrua immagine del «paradiso
abitato da diavoli», secondo l’Alexandre Dumas che accompagnò
Garibaldi (e a che prezzo!) alla conquista e al saccheggio.
Caino, al contrario, è un’espressione più saggia e attenta
alla verità, perché Caino non è perso per sempre, a
differenza di chi precipita all’inferno:
gli viene offerta una possibilità di riscatto, in un’altra
terra.
Anche se non la coglie.
Né pare vogliano farlo, oggi, tanti che ancora godono del
vantaggio ereditato da chi venne a sterminarci.
Quando scrivo “i settentrionali”, “i piemontesi”, non intendo
generalizzare (come avviene quando si parla di
“meridionali”).
Alcuni dei più grandi meridionalisti erano del Nord;
e gli ascari che in Parlamento votano (dal 1861) contro
l’equità per le regioni che li hanno eletti, sono
meridionali.
Il Sud è stato privato delle sue istituzioni;
fu privato delle sue industrie, della sua ricchezza, della
capacità di reagire;
della sua gente (con una emigrazione indotta o forzata senza
pari in Europa);
infine, con un’operazione di lobotomia culturale, fu privato
della consapevolezza di sé, della memoria.
Noi non sappiamo più chi fummo.
Ed è accaduto come agli ebrei travolti dall’Olocausto (il
paragone non è esagerato:
centinaia di migliaia, forse un milione di meridionali
furono sterminati dalle truppe sabaude;
da tredici a oltre venti milioni, secondo i conteggi,
dovettero abbandonare la loro terra, in un secolo):
molti scampati ai lager cominciarono a domandarsi se il male
che li aveva investiti non fosse in qualche modo meritato.
Quando il danno è intollerabile, cercare una colpa, pur
assurda, inesistente, che lo renda comprensibile (non
giustificabile), diventa una via per non perdere la ragione.
Lo storico Ettore Ciccotti parlò di «una specie di
antisemitismo italiano» nei confronti degl’italiani del Sud.
La Lega, espressione di un nazionalismo locale comico, se non
fosse tragico, ne è la manifestazione più sincera.
Ed è accaduto che i meridionali abbiano fatto propri i
pregiudizi di cui erano oggetto.
E che, per un processo d’inversione della colpa, la vittima
si sia addossata quella del carnefice.
Succede quando il dolore della colpa che ci si attribuisce è
più tollerabile del male subìto.
Così, la resistenza all’invasore, agli stupri, alla perdita
dei beni, della vita, dell’identità, del proprio paese, è
divenuta “vergogna”.
Solo ora, dopo un secolo e mezzo, le famiglie meridionali
che ebbero guerriglieri e patrioti combattenti cominciano a
recuperare l’orgoglio dei propri avi, tutti etichettati come
“briganti” dall’aggressore (naturalmente, il fenomeno porta
all’immeritato riscatto morale pure di chi era brigante e
basta.
Di malfattori ce ne furono altri:
mafiosi arruolati da Garibaldi e piemontesi;
ma vennero detti “buoni italiani”.
Criminale non è quel che fai, ma per chi lo fai).
Un giorno calcolai quanti miei familiari, da parte di padre
e di madre, sono emigrati (i pugliesi furono gli ultimi a
partire):
uno ogni due.
Una mia cugina, dopo sei mesi al Nord, tornò per le ferie
estive (come alcuni volatili, il periodico riapparire degli
emigrati annuncia le stagioni:
li chiamavano birds of passage, “uccelli di passaggio”,
nell’America del Nord;
e golondrinas, “rondini”, in quella del Sud).
Era cambiata:
vestiva in modo più appariscente, esibiva un accento non
suo, roteava stizzosamente le spalle, il mento puntuto e
alto.
Parlava malissimo dei meridionali, con astio rovente e
ridicolo.
«Ma cosa fanno di così terribile?»
le chiese mia madre, incuriosita.
Lei tacque per lo stupore, si guardò intorno, come a cercare
una risposta.
Era sorpresa, o ci parve, dalla stupidità della domanda:
c’era bisogno di una ragione per parlar male dei meridionali?
Così, poverina, se ne uscì con una frase, lei settentrionale
da sei mesi, che la bollò per sempre, in famiglia:
«Sporcano i monumenti».
Come i piccioni;
ma, per fortuna, non dall’alto.
Cosa le fosse accaduto, lo capii molto più tardi.
Uno dei miei migliori amici fu tra i primi arrivati della
Lega Nord:
abbiamo scoperto di avere la stessa passione per la vela, di
aver acquistato (prima che ci conoscessimo) le stesse barche,
di avere una moglie con lo stesso, non comunissimo nome, e di
averla sposata lo stesso giorno.
Il mio amico si chiama (nooo!) Remo, i suoi nonni sono di
Benevento e di Matera;
lui è vissuto a lungo in Argentina, poi è rientrato in
Italia.
Sua moglie è veneta, emigrata dal Polesine in Francia
(l’isola di famiglia, alla foce del Po, finì sommersa, con
fattorie e frutteti: da possidenti a naufraghi);
poi è tornata in patria, fra Piemonte e Lombardia.
Leghisti accesi entrambi, fino a quando il movimento non
assunse connotazioni separatiste.
«La Lega è piena di meridionali e di figli di meridionali»
mi spiegava Remo.
«Sono i più convinti.»
Anche quella mia cugina è leghista.
Perché?
Chi emigra, abbandona una comunità e una terra che figurano
deboli e perdenti e mira a radicarsi in un altrove che appare
forte e vincente:
l’emigrato non appartiene più alla sua gente, e non ancora
all’altra (così crede).
In cerca di identità, non può che scegliere, lui sradicato e
sospeso, la più forte.
E questa sua nuova appartenenza è tanto più certa, quanto
maggiore è la distanza che frappone fra ciò che era e ciò che
vuole essere (in La lingua degli emigrati, si legge che essi
«rivivono nel paese di arrivo la loro situazione di
“dominati” in termini ancor più drammatici»;
e vogliono uscirne.
Si educano ad altro da quel che sono.
Quando il carnefice ti toglie tutto, l’unico punto di
riferimento che ti rimane è il carnefice.
Lo imiti).
Il settentrionale non ha bisogno di essere leghista;
il meridionale al Nord non può farne a meno, se di scarsa
radice.
Ed è il più attivo nel sostenere un’esclusione che non
escluda più lui, ma chi è come lui era.
I prossimi leghisti saranno i nipoti degli extracomunitari.
«Ma dubito» avverte Piero Bocchiaro, studioso di
comportamenti psico-sociali alla Vrije Universiteit di
Amsterdam, «che quel che viene mostrato corrisponda a quel
che si è.»
Come dire:
quello dell’emigrato che sposa nuovi costumi è un fare che
non corrisponde all’essere;
un vivere doppio;
non sempre consapevole.
Serve rivangare vecchie storie?
Non sono così vecchie da aver smesso di far male e produrre
conseguenze:
la storia di oggi è ancora quella di ieri.
La nostra fu interrotta e si può riannodarla solo nel punto
in cui venne spezzata.
Non si può scegliere la ripartenza che più conviene.
Quel che gli italiani venuti dal Nord ci fecero fu così
spaventoso, che ancora oggi lo si tace nei libri di storia e
nelle verità ufficiali;
si tengono al buio molti documenti che lo raccontano.
Una parte dell’Italia, in pieno sviluppo, fu condannata a
regredire e depredata dall’altra, che con il bottino finanziò
la propria crescita e prese un vantaggio, poi difeso con ogni
mezzo, incluse le leggi.
La questione meridionale, il ritardo del Sud rispetto al
Nord, non resiste “malgrado” la nascita dell’Italia unita, ma
sorse da quella e dura tuttora, perché è il motore
nell’economiandel Nord.
Né una sostanziale e improbabile restituzione del maltolto
riporterebbe le cose com’erano:
la perdita di fiducia e civiltà provocata nel Sud dalla
potatura dei migliori, con le stragi e l’emigrazione, non è
recuperabile in tempi brevi.
Certi processi storici e sociali non possono essere invertiti
a comando;
quello economico forse, sì.
Volendo.
Ma non si vuole.
E i difetti dei meridionali, ne vogliamo parlare?
No.
Almeno qui, no, visto che del Sud si elencano sempre e solo
quelli.
Il collega Lino Patruno (Alla riscossa terroni) ne enumera
trentadue;
ha ragione e credo si possa arrivare a sessantaquattro.
Lo scopo di Patruno è onesto:
indurre i meridionali alla responsabilità.
Ma comincio a temere che su questo si sia tutti d’accordo;
mentre i settentrionali si ritengano esentati dal fare
altrettanto.
Così ho stabilito una personale moratoria:
centocinquant’anni bastano;
per i prossimi diciannove mesi, anzi ventuno, voglio sentire
parlare solo dei difetti dei settentrionali.
Perché ogni pecca del Mezzogiorno deve giustificarne la
discriminazione, la minorità, e ogni pretesa del Nord,
persino sfacciatamente razzista, è intesa come diritto?
Perché ogni volta che si parla dell’Italia duale si ignora
il meglio del Sud e il peggio del Nord?
E dire il meglio del Sud risulta non credibile, dire il
peggio del Nord è un affronto?
«La memoria è di parte, come parziale è lo sguardo su cui si
fonda» rammenta Walter Barberis (Il bisogno di patria).
«Ma la truffa Parmalat vale, da sola, più che tutte quelle di
Napoli, di tutti i tempi, messe insieme» dice il sindaco che
rinnovò Bari, Michele Emiliano.
E passano come incidenti di percorso le truffe-latte difese
dalla Lega, quelle colossali della sanità lombarda, dai Poggi
Longostrevi alle cliniche della morte, gli sfrenati intrecci
affaristici di Comunione e Liberazione...
«La corruttela politica nostra non è male meridionale più che
non sia settentrionale, e non è in essa che si deve cercare
il vero carattere distintivo delle opposte parti d’Italia»
(Ettore Ciccotti, Mezzogiorno e Settentrione d’Italia, 1898).
La Germania Ovest, già nei primi anni di riunificazione con
la più povera Germania Est, spese, nei territori orientali,
«una cifra cinque volte superiore a quella che è costata in
questi cinquant’anni la vituperata Cassa per il Mezzogiorno»
(Se il Nord, Agazio Loiero);
e ogni anno vi investe quanto gli Stati Uniti, con il Piano
Marshall, inviarono dopo la guerra, per la ricostruzione
dell’intera Europa.
Era l’unico modo per far confluire la ricchezza dell’Ovest
dall’altra parte, sino a pareggiare il livello, in vent’anni.
Lì si volle;
e il di più dell’Ovest non era stato rubato all’Est.
Quando una differenza dura così a lungo, si rischia di non
attribuirne più le ragioni alle cause che l’hanno generata e
la mantengono, ma all’insufficienza di chi la patisce.
Così, l’ignorante per ignoranza, il colto per attiva
coscienza, il razzista per ignoranza e cattiva coscienza,
trovano più comodo spiegare il sottosviluppo economico dei
neri con l’inferiorità della “razza”.
Lo si diceva dei lombardi, quando la loro regione era tenuta
dagli austroungarici solo come area di consumo di beni
prodotti altrove.
Il Nord era nella condizione di colonia cui fu condannato il
Sud dopo l’annessione e il saccheggio:
è quel «che l’economia capitalistica fa a’ vinti nella lotta
della concorrenza» (ancora Ciccotti).
Anche allora si indagò sugli effetti, per non riconoscerne
le cause.
E si cercò di capire perché il lombardo fosse così incapace,
inefficiente, «in una parola, nullo», secondo la sociologa
Cristina Belgioioso, autrice dell’indagine sulla pochezza dei
«padani» (fra i quali, Cesare Lombroso condusse la ricerca
sul «cretinismo perfetto»):
i Bossi, i Calderoli e i Gentilini non nascono dal niente.
I “Lombardi”, come venivano chiamati tutti gli italiani del
Nord, erano giudicati dai francesi “vigliacchi e incapaci”.
La Lombardia «era troppo piccola per alimentare un
sufficiente mercato interno di scambio, e troppo debole per
praticare una politica di espansione industriale fuori
dei suoi confini, qualunque fosse l’aiuto dello stato» scrive
Luigi De Rosa, in La rivoluzione industriale in Italia.
«Non molto migliori risultavano le condizioni industriali
del Veneto, e così quelle della Liguria.»
Il Sud fu unito a forza, svuotato dei suoi beni e soggiogato,
per consentire lo sviluppo del Nord.
Cominciarono allora a sorgere fermenti federalisti lombardi:
«Quelli che parlano di uno “stato di Milano”, per
contrapporlo al resto d’Italia» avvertiva Ciccotti, fanno
l’errore di credere «che Milano sarebbe divenuta qual è senza
l’unità d’Italia»;
e «hanno bisogno di dissimularsi le vere cagioni del male,
per vivere de’ frutti del mal di tutti, facendo della diversa
lingua o del diverso dialetto e delle diverse latitudini
tante ragioni di dissidi».
Vivere de’ frutti del mal di tutti:
fare stare tutti peggio, per star meglio soltanto loro, con
la scusa del federalismo.
Si chiama rubare.
Ed era un secolo fa.
Rammento la conversazione con un collega che stimo, milanese
pratico e di successo.
Il tema, visto da Nord (lui), si riduceva a:
«Invece di lamentarsi sempre, i meridionali potrebbero darsi
una mossa»;
e visto da Sud (me):
«Invece di continuare a spiegarsi il ritardo del Sud con
l’insufficienza dei meridionali, il Nord potrebbe
interrogarsi un po’ di più sulle cause e non crearne di
nuove».
Mark Twain diceva che «siamo tutti esseri umani.
Non è possibile essere qualcosa di peggio».
Da noi, qualche tentativo di dargli torto c’è stato.
Salimbene da Parma, ricorda Barberis (Il bisogno di patria),
stimava la viltà dei meridionali congenita, perché «homines
caccarelli et merdacoli».
E per uno dei fondatori del Partito socialista, il bolognese
Camillo Prampolini, gli italiani si dividono in «nordici e
sudici ».
Uno “scienziato”, poi, confermerà la correttezza della
definizione, per «questi degenerati che abborrono l’acqua in
terra e in mare, che non possono giustificare la loro immensa
sporcizia colla immensa miseria in cui il destino li ha fatti
nascere».
E si capisce che, fosse stato lui il destino, non li avrebbe
fatti nascere.
Ma il destino non si cambia e persino lo si merita (o no?).
Sorge il sospetto che, dopo aver fatto l’Italia con il furto
e il sangue, bisognava giustificare il modo.
«In quegli anni» leggi in La razza maledetta.
Alle origini del pregiudizio antimeridionale, di Vito Teti
«il dibattito sulla razza e sull’inferiorità del Mezzogiorno
venne condotto in una infinità di saggi, libri, articoli,
interventi, a riprova di come esso non rispondesse a una
moda, ma a esigenze conoscitive, cariche di un’urgenza
politica, sociale, culturale.»
La “scienza” lombrosiana (nata da un soggiorno del suo
fondatore di soli tre mesi in Calabria: un genio da far
impallidire Darwin) avrebbe portato alle attese conclusioni.
Così (in ritardo, ché mio padre non mi aveva detto niente:
o non se n’era accorto o volle risparmiarmi una vergogna
di famiglia), appresi di appartenere a una “razza maledetta”;
e seppi che era dimostrata, con «i fatti», l’inferiorità
«razziale, fisica e psicologica, sociale e morale
degl’italiani del Mezzogiorno, rispetto agli italiani del
Settentrione».
Facevo veramente schifo e mi era toccato scoprirlo da solo:
era meglio quando, con i soldi di tutti, aprivano scuole solo
al Nord (l’ha fatto qualcun altro, prima dell’apparente
ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini), perché, se i
terroni imparano a leggere, possono farsi del male.
Che ne sapevo io, di essere, in quanto meridionale, parte di
una sottospecie di «degenerati, barbari, degradati,
ritardati»?
E, in trasferta all’estero, per emigrazione (e che altro, se
del Sud?), solo «delinquenti»?
Persino in presenza di genio, trattasi di «genialità malata o
infeconda» (Pasquale Rossi).
E un’intera regione, la Calabria, riassunto di tutto il Sud,
poteva essere indicata come «luogo di epilettici-degenerati,
di popolazioni superstiziose, tendenzialmente, per caratteri
razziali e temperamento etnico, criminali».
Come vi sentireste, voi, voi euganei, valdostani o brianzoli,
o anche solo marchigiani, persino soltanto molisani, se
scopriste una cosa del genere non prima, ma dopo aver sposato
una calabrese (ignari di indizi rivelatori, quali «la fronte
declive e il diametro bimandibolare accentuato»)?
Mettermi in casa una della regione «più odiata d’Italia»!
E la poveretta di mia moglie mi avrebbe evitato, se avesse
conosciuto lo “studio” che “certificava” (“scientificamente”,
e si capisce) l’ozio, l’indolenza, l’apatia, l’accidia dei
pugliesi?
Per una parte non breve della mia vita, mi sono aggirato per
questo paese, inconsapevole della classificazione
craniologica, secondo la quale le teste dolicocefale del Sud
erano chiaro indice di inferiorità, rispetto alle capocce
brachicefale che testimoniavano la superiorità dei
settentrionali.
Di Borghezio, avete presente?
O Renzo Bossi (tutto papà suo), l’intellettuale che riesce a
diplomarsi in appena quattro tentativi;
dopo di che, per frenare la fuga dei cervelli dall’Italia il
Nord l’ha incaricato di “vigilare” sul sistema fieristico
lombardo.
I meridionali, per Massimo D’Azeglio, erano «carne che
puzzava» (la storia tace sul suo alito).
Ma si è sempre i meridionali di qualcuno.
Ed è un guaio, perché vuol dire che chi stila graduatorie
finisce in quelle di altri.
E perché si fanno le classifiche, a cosa servono?
A degli studenti-cavia, volontari, si chiese di sopprimere,
pigiando un bottone, esseri viventi, secondo una scala di
prossimità biologica alla specie homo sapiens sapiens.
Era tutto finto:
non moriva nessuno;
ma loro non lo sapevano ed erano convinti di uccidere, in un
crescendo omicida, microbi, insetti, invertebrati, pesci,
uccelli, serpenti, topi, gatti, cani, scimmie...
Alcuni si fermarono agli uccelli;
altri trovarono intollerabile accoppare gatti o cani, solo
per un esperimento;
ci fu chi rifiutò di proseguire solo quando gli fu chiesto
di eliminare le scimmie;
e chi eseguì anche quel comando.
Un esperimento analogo fu compiuto con esseri umani nel
ruolo di “vittime”.
A studenti-cavie fu chiesto di infliggere scariche
elettriche sempre più pericolose.
Erano fasulle, ma non lo sapeva chi azionò la manopola sino
all’ultimo giro.
La scienza, il progresso, la civiltà richiedono qualche
sacrificio, e si trova sempre qualcuno disposto a farlo fare
ad altri.
Anche fra gli esseri umani sono state fatte graduatorie:
schiavi, servitori e padroni;
poveri e ricchi;
negri, sangue misti e bianchi;
meridionali, terroni nordicizzati e settentrionali...
Di nuovo: a cosa servono le classificazioni?
Gli studenticavia ci hanno dato la risposta:
a stabilire chi deve soffrire o morire prima, “per il bene di
tutti” (cioè di quelli che hanno deciso a chi tocca prima).
Le classifiche sono la giustificazione necessaria, perché
questo avvenga senza rimorso, “per una buona ragione”.
Napoleone Colajanni ricordava quegli «antroposociologici che,
per vedere progredire e migliorare l’umanità, vorrebbero
distruggerne almeno una buona metà».
Hitler ci provò.
Ma quando avviò lo sterminio dei minorati mentali, la
Germania insorse e persino la ferocia nazista dovette
desistere per le proteste popolari.
Le vittime designate erano minorati, ma ariani.
Quando si fece la stessa cosa con gli ebrei e gli zingari, la
Germania tacque.
Nella civile Treviso, un sindaco può proporre vagoni
blindati per espellere gli extracomunitari, il loro uso come
prede per i cacciatori locali, la rimozione delle panchine
dal centro, per impedire che siano contaminate da terga
extracomunitarie.
E viene rieletto.
Ma quando chiude lo stesso salotto cittadino ai cani
domestici (e alle loro deiezioni), la popolazione scende in
piazza e protesta.
Nella scala delle dignità difendibili (o almeno delle
sensibilità civili), Treviso pone i cani (e persino le loro
feci, a doverla dire tutta)più in alto degli extracomunitari.
Non è un’opinione;
è un fatto:
per Fido si sentirono offesi;
per Abdul, non abbastanza.
Le classificazioni sono gradini, indicano la direzione della
violenza che le genera:
dall’alto in basso.
La quantità di violenza è proporzionale alla tenuta delle
norme del vivere civile.
Se queste si indeboliscono, abbiamo visto con quanta
facilità si passi dalle sparate comico-razziste
dell’intellighenzia balcanica (poco o per niente dissimili da
quelle dei Bossi, dei Salvini, dei Calderoli, dei Gentilini)
alla pulizia etnica.
Il mio saggio amico Fulvio Molinari, giornalista e
scrittore, ne ha paura:
«Noi triestini l’abbiamo visto succedere alle porte di casa:
chi abusa delle parole viene travolto dai fatti.
Non si rendono conto».
E pensate se, invece, se ne rendono pure conto...
Trieste queste cose le percepisce prima e meglio degli altri,
per la sensibilità della frontiera.
Paolo Rumiz si è mosso da lì per il suo viaggio fra le
inquietudini del Nord;
e, in La secessione leggera, riporta le parole di un suo
amico di Sarajevo:
«Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la
Iugoslavia.
È stato il silenzio.
Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla
violenza».
Le scritte «Forza Etna», «Forza terremoto» comparse nel Nord
(e il cui ricordo commuove e inorgoglisce i leghisti della
prima ora, con la memoria degli eroici inizi) celano, sotto
un’apparente esagerazione dialettica, un desiderio vero,
profondo.
Un desiderio criminale:
a gente a cui il vulcano distruggeva case, aziende o a cui
il terremoto uccideva i familiari, qualcuno augurava di
peggio;
e per questo otteneva voti, consenso sociale.
Vergogna per loro;
e per chi consentiva e consente.
Quella violenza è solo verbale, ma va nel senso della
classificazione, perché quando il Po uscì dagli argini,
distrusse case, fece vittime o quando l’ictus paralizzò
Bossi,
nessuno al Sud scrisse sui viadotti dell’autostrada:
«Forza Po» e «Forza ictus».
La differenza fra le scritte leghiste e l’assenza di risposta
può essere in qualche millennio di storia in più (magari!), o
nell’accettazione del ruolo dei vinti (più probabile).
L’aggressione leghista ha indotto molti a sentirsi
meridionali, a riscoprire la propria storia;
che i settentrionali preferiscono ignorare, un po’ perché
credono di aver già capito quel che c’è da capire;
un po’ perché non gl’interessa sapere del Sud, che associano
a un’idea di cultura inutilmente contorta, elaborata,
improduttiva, perdente e pretenziosa (insomma, un misto di
invidiuzza e disprezzo per quegl’«intellettuali della Magna
Grecia» che sanno un sacco di cose che non servono a niente);
un po’ perché, nella ricerca di radici diverse e distanti,
piuttosto che coltivare la ricchezza delle proprie, si
trastullano con la patacca della “cultura celtica”.
Comprensibile la “voglia di passato”, ma perché forzarne un
aspetto per adattarlo a un desiderio del presente?
Si rischia la caricatura, come il kilt, il gonnellino degli
scozzesi, che è un’invenzione folcloristica recente;
o il «sole delle Alpi», quel fiore a sei petali, scelto dai
leghisti quale loro simbolo, ma diffuso da sempre un po’
ovunque, e abbondantemente nel Mediterraneo:
era già sugli scudi dei guerrieri di Puglia (però zona-Nord,
eh?), più di tremila anni fa.
Sciur Asterix de la Briansa, quello è il sole del Tavoliere!
Ch’el vaga schisc anca (Ci vada piano pure) con l’avo
barbarico:
al Nord lasciò il nome a una regione, mentre al Sud i suoi
stati e le sue leggi nei tribunali sopravvissero ancora per
quasi tre secoli, e con tale forza ed estensione (parte della
Campania, della Basilicata, della Puglia e della Calabria)
che, nelle mappe dell’epoca, la “capitale di Longobardia” era
Bari.
Terun!
Ma questo libro parla della costruzione della minorità del
Mezzogiorno, così, tanto vale dirlo subito:
il pur più duraturo stato meridionale di quei barbari che
vennero a civilizzarsi in casa nostra passò alla storia con
il nome di “Langobardia Minor” (e te pareva!).
«Quando non si vuol fare qualcosa per capirla,» ha scritto
Marco Paolini «si trasforma la storia in geografia.»
E accettiamo che, contro il valore dei fatti, la geografia
divenga comunque vincente, se segna Nord e comunque perdente,
se segna Sud?
E che la latitudine misuri il valore degli uomini, delle loro
azioni, dei loro diritti?
Ma non è esattamente questa l’essenza unica, piena, del
razzismo?
Non è nella facilità di tale promessa il suo successo con gli
stupidi e gli egoisti?
«Le identità plurali sono percepite dai nazionalismi come
altrettante minacce» scrive Predrag Matvejevic´ in Mondo ex e
tempo del dopo.
E spiega che è proprio nelle «nazioni venute tardi», come
l’Italia, che «queste malattie di identità» colpiscono più
facilmente.
Il Settentrione ne patisce, perché scellerate scelte
politiche ed economiche hanno (de)portato al Nord alcuni
milioni di meridionali, con i loro dialetti, le loro diete,
le loro abitudini.
Per quanto essi abbiano cercato di assimilare nuovi accenti e
costumi, i propri hanno influito su quelli altrui;
sapori e amori si sono fusi, generando un meticciato
avvertito come minaccia per l’identità del Nord.
La Lega, l’invenzione di riti celtico-padano-veneti sono
furbate politiche per trasformare in voti il bisogno di
riscoprire radici e armarle di razzismo («Decidemmo di
sfruttare l’antimeridionalismo diffuso in Lombardia, come in
altre regioni del Nord» ammette lo spudorato Umberto Bossi
nel Mein Kampf della Lega, il suo Vento dal Nord).
E ne patisce il Sud, che ha meglio conservato il colore delle
radici (indebolite dall’esodo, ma non stemperate da
tradizioni diverse), pur se nei comportamenti è stato indotto
a rinnegarle, a ritenerle superate, scadenti, sconfitte.
Come per gli ebrei convertiti a forza, gli è toccato sentire
in un modo e agire in un altro.
Finché, col tempo e le generazioni, quel sentire si è fatto
flebile;
salvo riaccendersi, per l’offesa, e proporsi “contro”.
La tardiva scoperta di essere meridionale mi ha rivelato un
assurdo:
i meridionali traggono il nome da quel che gli manca: il Sud.
E pure quando la geografia gliene offriva uno (le infelici
avventure contadine dei siciliani in Libia, in Tunisia), la
storia glielo ha negato.
Il mondo dei meridionali ha una direzione in meno:
più giù di dove sono non si può andare, restando “a casa”.
Il Sud porta con sé un’idea di gioia e di nostalgia;
se la prima è data dal clima, dalla natura, l’altra (come
accade, a volte, dopo un’amputazione) viene dal dolore
dell’arto fantasma:
fa male quello che non c’è.
Il Sud.
Ed è una negazione pesante.
L’estremo lembo di alcune regioni, che il sentimento proprio
e altrui percepisce “al confine del mondo”, è chiamato, in
Galizia come in Cornovaglia o in Bretagna:
Finisterrae.
In Italia un posto così è in Puglia, a Santa Maria di Leuca:
lì il mare si alza come un muro, a chiudere il discorso.
La Puglia è un dito di terra lungo quasi quattrocento
chilometri, ma largo poco più di trenta, verso Leuca.
Significa che non solo ci manca il Sud (Finisterrae), ma
altre due direzioni, l’Est e l’Ovest, sono appena abbozzate.
Si intuisce altro, da qui, a cui non pensi se hai intorno un
orizzonte completo e percorribile.
Può trattarsi della direzione negata della vita.
Un settentrionale può volgere gli occhi e cercarsi il futuro
in ogni parte.
Un meridionale, no:
è costretto a guardare solo verso Nord:
dalla storia, dall’economia figlia di quella storia, e
persino dalla geografia.
In realtà, nemmeno il settentrionale ha davvero scelta;
se rinuncia al Sud, come quattro scriteriati vorrebbero,
cade nella nostra condizione (ma in modo artificioso, falso,
quindi sterile): quella degli amputati.
Mentre a noi tocca un arto fantasma che ti rende fertile
(perché non è la tua volontà a privartene), a prezzo di un
dolore necessario:
chi non raggiunge e comprende Finisterrae (la parte che
manca) non sa il suo limite, non sa quel che vale.
E si vede.
http://tinyurl.com/3yn7hys
tratto dal libro terroni di pino aprile
La prima parte si trova anche su:
http://www.facebook.com/topic.php?uid=150908502208&topic=17798
Lo stato italiano è stato una feroce dittatura che ha messo a
ferro e fuoco l'Italia meridionale, squartato, fucilato,
seppellito vivi poveri contadini che scrittori salariati
hanno infamato col marchio di briganti
(A. GRAMSCI 1920 DA ORDINE NUOVO)
da lì vennero quelli che, dicendosi fratelli, compirono al
Sud, a scopo di rapina, il massacro più imponente mai subito
da queste regioni (e sì che di barbari ne sono passati).
I musei del Risorgimento, nota Mario Isnenghi, nella sua
Breve storia dell’Italia unita a uso dei perplessi, sono
quasi tutti al Centro o al Nord.
Il Nord è dove ho lavorato anni e ho amici, ed è casa mia;
come il Sud, dove sono nato;
o il Centro, dove abito.
Gl’italiani vanno al Nord in cerca di soldi;
al Sud in cerca dell’anima.
All’estero smettono di essere meridionali o settentrionali e
diventano solo italiani (indistintamente, nel pregiudizio
altrui, geni e farabutti).
Il Sud, visto da Nord, è L’inferno, titolo del libro di
Giorgio Bocca che nel 2008 ha scritto sul «Venerdì» di
«Repubblica », non so quanto provocatoriamente:
«Sì, è vero, sono un antimeridionale... Passo per razzista,
e forse lo sono».
Nessuno vi trovò da ridire:
è o no il Sud, nella geografia, anche morale, il luogo del
male?
Del male senza possibilità di redenzione:
ché questo è l’inferno, congrua immagine del «paradiso
abitato da diavoli», secondo l’Alexandre Dumas che accompagnò
Garibaldi (e a che prezzo!) alla conquista e al saccheggio.
Caino, al contrario, è un’espressione più saggia e attenta
alla verità, perché Caino non è perso per sempre, a
differenza di chi precipita all’inferno:
gli viene offerta una possibilità di riscatto, in un’altra
terra.
Anche se non la coglie.
Né pare vogliano farlo, oggi, tanti che ancora godono del
vantaggio ereditato da chi venne a sterminarci.
Quando scrivo “i settentrionali”, “i piemontesi”, non intendo
generalizzare (come avviene quando si parla di
“meridionali”).
Alcuni dei più grandi meridionalisti erano del Nord;
e gli ascari che in Parlamento votano (dal 1861) contro
l’equità per le regioni che li hanno eletti, sono
meridionali.
Il Sud è stato privato delle sue istituzioni;
fu privato delle sue industrie, della sua ricchezza, della
capacità di reagire;
della sua gente (con una emigrazione indotta o forzata senza
pari in Europa);
infine, con un’operazione di lobotomia culturale, fu privato
della consapevolezza di sé, della memoria.
Noi non sappiamo più chi fummo.
Ed è accaduto come agli ebrei travolti dall’Olocausto (il
paragone non è esagerato:
centinaia di migliaia, forse un milione di meridionali
furono sterminati dalle truppe sabaude;
da tredici a oltre venti milioni, secondo i conteggi,
dovettero abbandonare la loro terra, in un secolo):
molti scampati ai lager cominciarono a domandarsi se il male
che li aveva investiti non fosse in qualche modo meritato.
Quando il danno è intollerabile, cercare una colpa, pur
assurda, inesistente, che lo renda comprensibile (non
giustificabile), diventa una via per non perdere la ragione.
Lo storico Ettore Ciccotti parlò di «una specie di
antisemitismo italiano» nei confronti degl’italiani del Sud.
La Lega, espressione di un nazionalismo locale comico, se non
fosse tragico, ne è la manifestazione più sincera.
Ed è accaduto che i meridionali abbiano fatto propri i
pregiudizi di cui erano oggetto.
E che, per un processo d’inversione della colpa, la vittima
si sia addossata quella del carnefice.
Succede quando il dolore della colpa che ci si attribuisce è
più tollerabile del male subìto.
Così, la resistenza all’invasore, agli stupri, alla perdita
dei beni, della vita, dell’identità, del proprio paese, è
divenuta “vergogna”.
Solo ora, dopo un secolo e mezzo, le famiglie meridionali
che ebbero guerriglieri e patrioti combattenti cominciano a
recuperare l’orgoglio dei propri avi, tutti etichettati come
“briganti” dall’aggressore (naturalmente, il fenomeno porta
all’immeritato riscatto morale pure di chi era brigante e
basta.
Di malfattori ce ne furono altri:
mafiosi arruolati da Garibaldi e piemontesi;
ma vennero detti “buoni italiani”.
Criminale non è quel che fai, ma per chi lo fai).
Un giorno calcolai quanti miei familiari, da parte di padre
e di madre, sono emigrati (i pugliesi furono gli ultimi a
partire):
uno ogni due.
Una mia cugina, dopo sei mesi al Nord, tornò per le ferie
estive (come alcuni volatili, il periodico riapparire degli
emigrati annuncia le stagioni:
li chiamavano birds of passage, “uccelli di passaggio”,
nell’America del Nord;
e golondrinas, “rondini”, in quella del Sud).
Era cambiata:
vestiva in modo più appariscente, esibiva un accento non
suo, roteava stizzosamente le spalle, il mento puntuto e
alto.
Parlava malissimo dei meridionali, con astio rovente e
ridicolo.
«Ma cosa fanno di così terribile?»
le chiese mia madre, incuriosita.
Lei tacque per lo stupore, si guardò intorno, come a cercare
una risposta.
Era sorpresa, o ci parve, dalla stupidità della domanda:
c’era bisogno di una ragione per parlar male dei meridionali?
Così, poverina, se ne uscì con una frase, lei settentrionale
da sei mesi, che la bollò per sempre, in famiglia:
«Sporcano i monumenti».
Come i piccioni;
ma, per fortuna, non dall’alto.
Cosa le fosse accaduto, lo capii molto più tardi.
Uno dei miei migliori amici fu tra i primi arrivati della
Lega Nord:
abbiamo scoperto di avere la stessa passione per la vela, di
aver acquistato (prima che ci conoscessimo) le stesse barche,
di avere una moglie con lo stesso, non comunissimo nome, e di
averla sposata lo stesso giorno.
Il mio amico si chiama (nooo!) Remo, i suoi nonni sono di
Benevento e di Matera;
lui è vissuto a lungo in Argentina, poi è rientrato in
Italia.
Sua moglie è veneta, emigrata dal Polesine in Francia
(l’isola di famiglia, alla foce del Po, finì sommersa, con
fattorie e frutteti: da possidenti a naufraghi);
poi è tornata in patria, fra Piemonte e Lombardia.
Leghisti accesi entrambi, fino a quando il movimento non
assunse connotazioni separatiste.
«La Lega è piena di meridionali e di figli di meridionali»
mi spiegava Remo.
«Sono i più convinti.»
Anche quella mia cugina è leghista.
Perché?
Chi emigra, abbandona una comunità e una terra che figurano
deboli e perdenti e mira a radicarsi in un altrove che appare
forte e vincente:
l’emigrato non appartiene più alla sua gente, e non ancora
all’altra (così crede).
In cerca di identità, non può che scegliere, lui sradicato e
sospeso, la più forte.
E questa sua nuova appartenenza è tanto più certa, quanto
maggiore è la distanza che frappone fra ciò che era e ciò che
vuole essere (in La lingua degli emigrati, si legge che essi
«rivivono nel paese di arrivo la loro situazione di
“dominati” in termini ancor più drammatici»;
e vogliono uscirne.
Si educano ad altro da quel che sono.
Quando il carnefice ti toglie tutto, l’unico punto di
riferimento che ti rimane è il carnefice.
Lo imiti).
Il settentrionale non ha bisogno di essere leghista;
il meridionale al Nord non può farne a meno, se di scarsa
radice.
Ed è il più attivo nel sostenere un’esclusione che non
escluda più lui, ma chi è come lui era.
I prossimi leghisti saranno i nipoti degli extracomunitari.
«Ma dubito» avverte Piero Bocchiaro, studioso di
comportamenti psico-sociali alla Vrije Universiteit di
Amsterdam, «che quel che viene mostrato corrisponda a quel
che si è.»
Come dire:
quello dell’emigrato che sposa nuovi costumi è un fare che
non corrisponde all’essere;
un vivere doppio;
non sempre consapevole.
Serve rivangare vecchie storie?
Non sono così vecchie da aver smesso di far male e produrre
conseguenze:
la storia di oggi è ancora quella di ieri.
La nostra fu interrotta e si può riannodarla solo nel punto
in cui venne spezzata.
Non si può scegliere la ripartenza che più conviene.
Quel che gli italiani venuti dal Nord ci fecero fu così
spaventoso, che ancora oggi lo si tace nei libri di storia e
nelle verità ufficiali;
si tengono al buio molti documenti che lo raccontano.
Una parte dell’Italia, in pieno sviluppo, fu condannata a
regredire e depredata dall’altra, che con il bottino finanziò
la propria crescita e prese un vantaggio, poi difeso con ogni
mezzo, incluse le leggi.
La questione meridionale, il ritardo del Sud rispetto al
Nord, non resiste “malgrado” la nascita dell’Italia unita, ma
sorse da quella e dura tuttora, perché è il motore
nell’economiandel Nord.
Né una sostanziale e improbabile restituzione del maltolto
riporterebbe le cose com’erano:
la perdita di fiducia e civiltà provocata nel Sud dalla
potatura dei migliori, con le stragi e l’emigrazione, non è
recuperabile in tempi brevi.
Certi processi storici e sociali non possono essere invertiti
a comando;
quello economico forse, sì.
Volendo.
Ma non si vuole.
E i difetti dei meridionali, ne vogliamo parlare?
No.
Almeno qui, no, visto che del Sud si elencano sempre e solo
quelli.
Il collega Lino Patruno (Alla riscossa terroni) ne enumera
trentadue;
ha ragione e credo si possa arrivare a sessantaquattro.
Lo scopo di Patruno è onesto:
indurre i meridionali alla responsabilità.
Ma comincio a temere che su questo si sia tutti d’accordo;
mentre i settentrionali si ritengano esentati dal fare
altrettanto.
Così ho stabilito una personale moratoria:
centocinquant’anni bastano;
per i prossimi diciannove mesi, anzi ventuno, voglio sentire
parlare solo dei difetti dei settentrionali.
Perché ogni pecca del Mezzogiorno deve giustificarne la
discriminazione, la minorità, e ogni pretesa del Nord,
persino sfacciatamente razzista, è intesa come diritto?
Perché ogni volta che si parla dell’Italia duale si ignora
il meglio del Sud e il peggio del Nord?
E dire il meglio del Sud risulta non credibile, dire il
peggio del Nord è un affronto?
«La memoria è di parte, come parziale è lo sguardo su cui si
fonda» rammenta Walter Barberis (Il bisogno di patria).
«Ma la truffa Parmalat vale, da sola, più che tutte quelle di
Napoli, di tutti i tempi, messe insieme» dice il sindaco che
rinnovò Bari, Michele Emiliano.
E passano come incidenti di percorso le truffe-latte difese
dalla Lega, quelle colossali della sanità lombarda, dai Poggi
Longostrevi alle cliniche della morte, gli sfrenati intrecci
affaristici di Comunione e Liberazione...
«La corruttela politica nostra non è male meridionale più che
non sia settentrionale, e non è in essa che si deve cercare
il vero carattere distintivo delle opposte parti d’Italia»
(Ettore Ciccotti, Mezzogiorno e Settentrione d’Italia, 1898).
La Germania Ovest, già nei primi anni di riunificazione con
la più povera Germania Est, spese, nei territori orientali,
«una cifra cinque volte superiore a quella che è costata in
questi cinquant’anni la vituperata Cassa per il Mezzogiorno»
(Se il Nord, Agazio Loiero);
e ogni anno vi investe quanto gli Stati Uniti, con il Piano
Marshall, inviarono dopo la guerra, per la ricostruzione
dell’intera Europa.
Era l’unico modo per far confluire la ricchezza dell’Ovest
dall’altra parte, sino a pareggiare il livello, in vent’anni.
Lì si volle;
e il di più dell’Ovest non era stato rubato all’Est.
Quando una differenza dura così a lungo, si rischia di non
attribuirne più le ragioni alle cause che l’hanno generata e
la mantengono, ma all’insufficienza di chi la patisce.
Così, l’ignorante per ignoranza, il colto per attiva
coscienza, il razzista per ignoranza e cattiva coscienza,
trovano più comodo spiegare il sottosviluppo economico dei
neri con l’inferiorità della “razza”.
Lo si diceva dei lombardi, quando la loro regione era tenuta
dagli austroungarici solo come area di consumo di beni
prodotti altrove.
Il Nord era nella condizione di colonia cui fu condannato il
Sud dopo l’annessione e il saccheggio:
è quel «che l’economia capitalistica fa a’ vinti nella lotta
della concorrenza» (ancora Ciccotti).
Anche allora si indagò sugli effetti, per non riconoscerne
le cause.
E si cercò di capire perché il lombardo fosse così incapace,
inefficiente, «in una parola, nullo», secondo la sociologa
Cristina Belgioioso, autrice dell’indagine sulla pochezza dei
«padani» (fra i quali, Cesare Lombroso condusse la ricerca
sul «cretinismo perfetto»):
i Bossi, i Calderoli e i Gentilini non nascono dal niente.
I “Lombardi”, come venivano chiamati tutti gli italiani del
Nord, erano giudicati dai francesi “vigliacchi e incapaci”.
La Lombardia «era troppo piccola per alimentare un
sufficiente mercato interno di scambio, e troppo debole per
praticare una politica di espansione industriale fuori
dei suoi confini, qualunque fosse l’aiuto dello stato» scrive
Luigi De Rosa, in La rivoluzione industriale in Italia.
«Non molto migliori risultavano le condizioni industriali
del Veneto, e così quelle della Liguria.»
Il Sud fu unito a forza, svuotato dei suoi beni e soggiogato,
per consentire lo sviluppo del Nord.
Cominciarono allora a sorgere fermenti federalisti lombardi:
«Quelli che parlano di uno “stato di Milano”, per
contrapporlo al resto d’Italia» avvertiva Ciccotti, fanno
l’errore di credere «che Milano sarebbe divenuta qual è senza
l’unità d’Italia»;
e «hanno bisogno di dissimularsi le vere cagioni del male,
per vivere de’ frutti del mal di tutti, facendo della diversa
lingua o del diverso dialetto e delle diverse latitudini
tante ragioni di dissidi».
Vivere de’ frutti del mal di tutti:
fare stare tutti peggio, per star meglio soltanto loro, con
la scusa del federalismo.
Si chiama rubare.
Ed era un secolo fa.
Rammento la conversazione con un collega che stimo, milanese
pratico e di successo.
Il tema, visto da Nord (lui), si riduceva a:
«Invece di lamentarsi sempre, i meridionali potrebbero darsi
una mossa»;
e visto da Sud (me):
«Invece di continuare a spiegarsi il ritardo del Sud con
l’insufficienza dei meridionali, il Nord potrebbe
interrogarsi un po’ di più sulle cause e non crearne di
nuove».
Mark Twain diceva che «siamo tutti esseri umani.
Non è possibile essere qualcosa di peggio».
Da noi, qualche tentativo di dargli torto c’è stato.
Salimbene da Parma, ricorda Barberis (Il bisogno di patria),
stimava la viltà dei meridionali congenita, perché «homines
caccarelli et merdacoli».
E per uno dei fondatori del Partito socialista, il bolognese
Camillo Prampolini, gli italiani si dividono in «nordici e
sudici ».
Uno “scienziato”, poi, confermerà la correttezza della
definizione, per «questi degenerati che abborrono l’acqua in
terra e in mare, che non possono giustificare la loro immensa
sporcizia colla immensa miseria in cui il destino li ha fatti
nascere».
E si capisce che, fosse stato lui il destino, non li avrebbe
fatti nascere.
Ma il destino non si cambia e persino lo si merita (o no?).
Sorge il sospetto che, dopo aver fatto l’Italia con il furto
e il sangue, bisognava giustificare il modo.
«In quegli anni» leggi in La razza maledetta.
Alle origini del pregiudizio antimeridionale, di Vito Teti
«il dibattito sulla razza e sull’inferiorità del Mezzogiorno
venne condotto in una infinità di saggi, libri, articoli,
interventi, a riprova di come esso non rispondesse a una
moda, ma a esigenze conoscitive, cariche di un’urgenza
politica, sociale, culturale.»
La “scienza” lombrosiana (nata da un soggiorno del suo
fondatore di soli tre mesi in Calabria: un genio da far
impallidire Darwin) avrebbe portato alle attese conclusioni.
Così (in ritardo, ché mio padre non mi aveva detto niente:
o non se n’era accorto o volle risparmiarmi una vergogna
di famiglia), appresi di appartenere a una “razza maledetta”;
e seppi che era dimostrata, con «i fatti», l’inferiorità
«razziale, fisica e psicologica, sociale e morale
degl’italiani del Mezzogiorno, rispetto agli italiani del
Settentrione».
Facevo veramente schifo e mi era toccato scoprirlo da solo:
era meglio quando, con i soldi di tutti, aprivano scuole solo
al Nord (l’ha fatto qualcun altro, prima dell’apparente
ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini), perché, se i
terroni imparano a leggere, possono farsi del male.
Che ne sapevo io, di essere, in quanto meridionale, parte di
una sottospecie di «degenerati, barbari, degradati,
ritardati»?
E, in trasferta all’estero, per emigrazione (e che altro, se
del Sud?), solo «delinquenti»?
Persino in presenza di genio, trattasi di «genialità malata o
infeconda» (Pasquale Rossi).
E un’intera regione, la Calabria, riassunto di tutto il Sud,
poteva essere indicata come «luogo di epilettici-degenerati,
di popolazioni superstiziose, tendenzialmente, per caratteri
razziali e temperamento etnico, criminali».
Come vi sentireste, voi, voi euganei, valdostani o brianzoli,
o anche solo marchigiani, persino soltanto molisani, se
scopriste una cosa del genere non prima, ma dopo aver sposato
una calabrese (ignari di indizi rivelatori, quali «la fronte
declive e il diametro bimandibolare accentuato»)?
Mettermi in casa una della regione «più odiata d’Italia»!
E la poveretta di mia moglie mi avrebbe evitato, se avesse
conosciuto lo “studio” che “certificava” (“scientificamente”,
e si capisce) l’ozio, l’indolenza, l’apatia, l’accidia dei
pugliesi?
Per una parte non breve della mia vita, mi sono aggirato per
questo paese, inconsapevole della classificazione
craniologica, secondo la quale le teste dolicocefale del Sud
erano chiaro indice di inferiorità, rispetto alle capocce
brachicefale che testimoniavano la superiorità dei
settentrionali.
Di Borghezio, avete presente?
O Renzo Bossi (tutto papà suo), l’intellettuale che riesce a
diplomarsi in appena quattro tentativi;
dopo di che, per frenare la fuga dei cervelli dall’Italia il
Nord l’ha incaricato di “vigilare” sul sistema fieristico
lombardo.
I meridionali, per Massimo D’Azeglio, erano «carne che
puzzava» (la storia tace sul suo alito).
Ma si è sempre i meridionali di qualcuno.
Ed è un guaio, perché vuol dire che chi stila graduatorie
finisce in quelle di altri.
E perché si fanno le classifiche, a cosa servono?
A degli studenti-cavia, volontari, si chiese di sopprimere,
pigiando un bottone, esseri viventi, secondo una scala di
prossimità biologica alla specie homo sapiens sapiens.
Era tutto finto:
non moriva nessuno;
ma loro non lo sapevano ed erano convinti di uccidere, in un
crescendo omicida, microbi, insetti, invertebrati, pesci,
uccelli, serpenti, topi, gatti, cani, scimmie...
Alcuni si fermarono agli uccelli;
altri trovarono intollerabile accoppare gatti o cani, solo
per un esperimento;
ci fu chi rifiutò di proseguire solo quando gli fu chiesto
di eliminare le scimmie;
e chi eseguì anche quel comando.
Un esperimento analogo fu compiuto con esseri umani nel
ruolo di “vittime”.
A studenti-cavie fu chiesto di infliggere scariche
elettriche sempre più pericolose.
Erano fasulle, ma non lo sapeva chi azionò la manopola sino
all’ultimo giro.
La scienza, il progresso, la civiltà richiedono qualche
sacrificio, e si trova sempre qualcuno disposto a farlo fare
ad altri.
Anche fra gli esseri umani sono state fatte graduatorie:
schiavi, servitori e padroni;
poveri e ricchi;
negri, sangue misti e bianchi;
meridionali, terroni nordicizzati e settentrionali...
Di nuovo: a cosa servono le classificazioni?
Gli studenticavia ci hanno dato la risposta:
a stabilire chi deve soffrire o morire prima, “per il bene di
tutti” (cioè di quelli che hanno deciso a chi tocca prima).
Le classifiche sono la giustificazione necessaria, perché
questo avvenga senza rimorso, “per una buona ragione”.
Napoleone Colajanni ricordava quegli «antroposociologici che,
per vedere progredire e migliorare l’umanità, vorrebbero
distruggerne almeno una buona metà».
Hitler ci provò.
Ma quando avviò lo sterminio dei minorati mentali, la
Germania insorse e persino la ferocia nazista dovette
desistere per le proteste popolari.
Le vittime designate erano minorati, ma ariani.
Quando si fece la stessa cosa con gli ebrei e gli zingari, la
Germania tacque.
Nella civile Treviso, un sindaco può proporre vagoni
blindati per espellere gli extracomunitari, il loro uso come
prede per i cacciatori locali, la rimozione delle panchine
dal centro, per impedire che siano contaminate da terga
extracomunitarie.
E viene rieletto.
Ma quando chiude lo stesso salotto cittadino ai cani
domestici (e alle loro deiezioni), la popolazione scende in
piazza e protesta.
Nella scala delle dignità difendibili (o almeno delle
sensibilità civili), Treviso pone i cani (e persino le loro
feci, a doverla dire tutta)più in alto degli extracomunitari.
Non è un’opinione;
è un fatto:
per Fido si sentirono offesi;
per Abdul, non abbastanza.
Le classificazioni sono gradini, indicano la direzione della
violenza che le genera:
dall’alto in basso.
La quantità di violenza è proporzionale alla tenuta delle
norme del vivere civile.
Se queste si indeboliscono, abbiamo visto con quanta
facilità si passi dalle sparate comico-razziste
dell’intellighenzia balcanica (poco o per niente dissimili da
quelle dei Bossi, dei Salvini, dei Calderoli, dei Gentilini)
alla pulizia etnica.
Il mio saggio amico Fulvio Molinari, giornalista e
scrittore, ne ha paura:
«Noi triestini l’abbiamo visto succedere alle porte di casa:
chi abusa delle parole viene travolto dai fatti.
Non si rendono conto».
E pensate se, invece, se ne rendono pure conto...
Trieste queste cose le percepisce prima e meglio degli altri,
per la sensibilità della frontiera.
Paolo Rumiz si è mosso da lì per il suo viaggio fra le
inquietudini del Nord;
e, in La secessione leggera, riporta le parole di un suo
amico di Sarajevo:
«Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la
Iugoslavia.
È stato il silenzio.
Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla
violenza».
Le scritte «Forza Etna», «Forza terremoto» comparse nel Nord
(e il cui ricordo commuove e inorgoglisce i leghisti della
prima ora, con la memoria degli eroici inizi) celano, sotto
un’apparente esagerazione dialettica, un desiderio vero,
profondo.
Un desiderio criminale:
a gente a cui il vulcano distruggeva case, aziende o a cui
il terremoto uccideva i familiari, qualcuno augurava di
peggio;
e per questo otteneva voti, consenso sociale.
Vergogna per loro;
e per chi consentiva e consente.
Quella violenza è solo verbale, ma va nel senso della
classificazione, perché quando il Po uscì dagli argini,
distrusse case, fece vittime o quando l’ictus paralizzò
Bossi,
nessuno al Sud scrisse sui viadotti dell’autostrada:
«Forza Po» e «Forza ictus».
La differenza fra le scritte leghiste e l’assenza di risposta
può essere in qualche millennio di storia in più (magari!), o
nell’accettazione del ruolo dei vinti (più probabile).
L’aggressione leghista ha indotto molti a sentirsi
meridionali, a riscoprire la propria storia;
che i settentrionali preferiscono ignorare, un po’ perché
credono di aver già capito quel che c’è da capire;
un po’ perché non gl’interessa sapere del Sud, che associano
a un’idea di cultura inutilmente contorta, elaborata,
improduttiva, perdente e pretenziosa (insomma, un misto di
invidiuzza e disprezzo per quegl’«intellettuali della Magna
Grecia» che sanno un sacco di cose che non servono a niente);
un po’ perché, nella ricerca di radici diverse e distanti,
piuttosto che coltivare la ricchezza delle proprie, si
trastullano con la patacca della “cultura celtica”.
Comprensibile la “voglia di passato”, ma perché forzarne un
aspetto per adattarlo a un desiderio del presente?
Si rischia la caricatura, come il kilt, il gonnellino degli
scozzesi, che è un’invenzione folcloristica recente;
o il «sole delle Alpi», quel fiore a sei petali, scelto dai
leghisti quale loro simbolo, ma diffuso da sempre un po’
ovunque, e abbondantemente nel Mediterraneo:
era già sugli scudi dei guerrieri di Puglia (però zona-Nord,
eh?), più di tremila anni fa.
Sciur Asterix de la Briansa, quello è il sole del Tavoliere!
Ch’el vaga schisc anca (Ci vada piano pure) con l’avo
barbarico:
al Nord lasciò il nome a una regione, mentre al Sud i suoi
stati e le sue leggi nei tribunali sopravvissero ancora per
quasi tre secoli, e con tale forza ed estensione (parte della
Campania, della Basilicata, della Puglia e della Calabria)
che, nelle mappe dell’epoca, la “capitale di Longobardia” era
Bari.
Terun!
Ma questo libro parla della costruzione della minorità del
Mezzogiorno, così, tanto vale dirlo subito:
il pur più duraturo stato meridionale di quei barbari che
vennero a civilizzarsi in casa nostra passò alla storia con
il nome di “Langobardia Minor” (e te pareva!).
«Quando non si vuol fare qualcosa per capirla,» ha scritto
Marco Paolini «si trasforma la storia in geografia.»
E accettiamo che, contro il valore dei fatti, la geografia
divenga comunque vincente, se segna Nord e comunque perdente,
se segna Sud?
E che la latitudine misuri il valore degli uomini, delle loro
azioni, dei loro diritti?
Ma non è esattamente questa l’essenza unica, piena, del
razzismo?
Non è nella facilità di tale promessa il suo successo con gli
stupidi e gli egoisti?
«Le identità plurali sono percepite dai nazionalismi come
altrettante minacce» scrive Predrag Matvejevic´ in Mondo ex e
tempo del dopo.
E spiega che è proprio nelle «nazioni venute tardi», come
l’Italia, che «queste malattie di identità» colpiscono più
facilmente.
Il Settentrione ne patisce, perché scellerate scelte
politiche ed economiche hanno (de)portato al Nord alcuni
milioni di meridionali, con i loro dialetti, le loro diete,
le loro abitudini.
Per quanto essi abbiano cercato di assimilare nuovi accenti e
costumi, i propri hanno influito su quelli altrui;
sapori e amori si sono fusi, generando un meticciato
avvertito come minaccia per l’identità del Nord.
La Lega, l’invenzione di riti celtico-padano-veneti sono
furbate politiche per trasformare in voti il bisogno di
riscoprire radici e armarle di razzismo («Decidemmo di
sfruttare l’antimeridionalismo diffuso in Lombardia, come in
altre regioni del Nord» ammette lo spudorato Umberto Bossi
nel Mein Kampf della Lega, il suo Vento dal Nord).
E ne patisce il Sud, che ha meglio conservato il colore delle
radici (indebolite dall’esodo, ma non stemperate da
tradizioni diverse), pur se nei comportamenti è stato indotto
a rinnegarle, a ritenerle superate, scadenti, sconfitte.
Come per gli ebrei convertiti a forza, gli è toccato sentire
in un modo e agire in un altro.
Finché, col tempo e le generazioni, quel sentire si è fatto
flebile;
salvo riaccendersi, per l’offesa, e proporsi “contro”.
La tardiva scoperta di essere meridionale mi ha rivelato un
assurdo:
i meridionali traggono il nome da quel che gli manca: il Sud.
E pure quando la geografia gliene offriva uno (le infelici
avventure contadine dei siciliani in Libia, in Tunisia), la
storia glielo ha negato.
Il mondo dei meridionali ha una direzione in meno:
più giù di dove sono non si può andare, restando “a casa”.
Il Sud porta con sé un’idea di gioia e di nostalgia;
se la prima è data dal clima, dalla natura, l’altra (come
accade, a volte, dopo un’amputazione) viene dal dolore
dell’arto fantasma:
fa male quello che non c’è.
Il Sud.
Ed è una negazione pesante.
L’estremo lembo di alcune regioni, che il sentimento proprio
e altrui percepisce “al confine del mondo”, è chiamato, in
Galizia come in Cornovaglia o in Bretagna:
Finisterrae.
In Italia un posto così è in Puglia, a Santa Maria di Leuca:
lì il mare si alza come un muro, a chiudere il discorso.
La Puglia è un dito di terra lungo quasi quattrocento
chilometri, ma largo poco più di trenta, verso Leuca.
Significa che non solo ci manca il Sud (Finisterrae), ma
altre due direzioni, l’Est e l’Ovest, sono appena abbozzate.
Si intuisce altro, da qui, a cui non pensi se hai intorno un
orizzonte completo e percorribile.
Può trattarsi della direzione negata della vita.
Un settentrionale può volgere gli occhi e cercarsi il futuro
in ogni parte.
Un meridionale, no:
è costretto a guardare solo verso Nord:
dalla storia, dall’economia figlia di quella storia, e
persino dalla geografia.
In realtà, nemmeno il settentrionale ha davvero scelta;
se rinuncia al Sud, come quattro scriteriati vorrebbero,
cade nella nostra condizione (ma in modo artificioso, falso,
quindi sterile): quella degli amputati.
Mentre a noi tocca un arto fantasma che ti rende fertile
(perché non è la tua volontà a privartene), a prezzo di un
dolore necessario:
chi non raggiunge e comprende Finisterrae (la parte che
manca) non sa il suo limite, non sa quel che vale.
E si vede.
http://tinyurl.com/3yn7hys
tratto dal libro terroni di pino aprile
La prima parte si trova anche su:
http://www.facebook.com/topic.php?uid=150908502208&topic=17798
Lo stato italiano è stato una feroce dittatura che ha messo a
ferro e fuoco l'Italia meridionale, squartato, fucilato,
seppellito vivi poveri contadini che scrittori salariati
hanno infamato col marchio di briganti
(A. GRAMSCI 1920 DA ORDINE NUOVO)
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CINQUE X Mille ad EMERGENGY
Codice 971 471 101 55
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