pirex
2010-05-09 22:08:42 UTC
Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i
nazisti fecero a Marzabotto.
Ma tante volte, per anni.
E cancellarono per sempre molti paesi, in operazioni
“anti-terrorismo”, come i marines in Iraq.
Non sapevo che, nelle rappresaglie, si concessero libertà
di stupro sulle donne meridionali, come nei Balcani, durante
il conflitto etnico;
o come i marocchini delle truppe
francesi, in Ciociaria, nell’invasione, da Sud, per redimere
l’Italia dal fascismo (ogni volta che viene liberato, il
Mezzogiorno ci rimette qualcosa).
Ignoravo che, in nome dell’Unità nazionale, i fratelli
d’Italia ebbero pure diritto di saccheggio delle città
meridionali, come i Lanzichenecchi a Roma.
E che praticarono la tortura, come i marines ad Abu
Ghraib, i francesi in Algeria, Pinochet in Cile.
Non sapevo che in Parlamento, a Torino, un deputato ex
garibaldino paragonò la ferocia e le stragi piemontesi al
Sud a quelle di «Tamerlano, Gengis Khan e Attila».
Un altro preferì tacere «rivelazioni di cui l’Europa
potrebbe
inorridire».
E Garibaldi parlò di «cose da cloaca».
Né che si incarcerarono i meridionali senza accusa, senza
processo e senza condanna, come è accaduto con gl’islamici
a Guantánamo.
Lì qualche centinaio, terroristi per definizione, perché
musulmani; da noi centinaia di migliaia,
briganti per definizione, perché meridionali.
E, se bambini, briganti precoci;
se donne, brigantesse o mogli, figlie, di briganti;
o consanguinei di briganti (sino al terzo grado di
parentela);
o persino solo paesani o sospetti tali.
Tutto a norma di legge, si capisce, come in Sudafrica, con
l’apartheid.
Io credevo che i briganti fossero proprio briganti, non
anche ex soldati borbonici e patrioti alla guerriglia per
difendere il proprio paese invaso.
Non sapevo che il paesaggio del Sud divenne come quello
del Kosovo, con fucilazioni in massa, fosse comuni, paesi
che bruciavano sulle colline e colonne di decine di migliaia
di profughi in marcia.
Non volevo credere che i primi campi di concentramento
e sterminio in Europa li istituirono gli italiani del Nord,
per tormentare e farvi morire gli italiani del Sud, a
migliaia, forse decine di migliaia (non si sa, perché li
squagliavano nella calce), come nell’Unione Sovietica di
Stalin.
Ignoravo che il ministero degli Esteri dell’Italia unita
cercò per anni «una landa desolata», fra Patagonia, Borneo
e altri sperduti lidi, per deportarvi i meridionali e
annientarli lontano da occhi indiscreti.
Né sapevo che i fratelli d’Italia arrivati dal Nord
svuotarono
le ricche banche meridionali, regge, musei, case private
(rubando persino le posate), per pagare i debiti del Piemonte
e costituire immensi patrimoni privati.
E mai avrei immaginato che i Mille fossero quasi tutti
avanzi di galera.
Non sapevo che, a Italia così unificata, imposero una tassa
aggiuntiva ai meridionali, per pagare le spese della guerra
di conquista del Sud, fatta senza nemmeno dichiararla.
Ignoravo che l’occupazione del Regno delle Due Sicilie
fosse stata decisa, progettata, protetta da Inghilterra e
Francia, e parzialmente finanziata dalla massoneria (detto
da Garibaldi, sino al gran maestro Armando Corona, nel
1988).
Né sapevo che il Regno delle Due Sicilie fosse, fino al
momento dell’aggressione, uno dei paesi più industrializzati
del mondo (terzo, dopo Inghilterra e Francia, prima di
essere invaso).
E non c’era la “burocrazia borbonica”, intesa quale caotica
e inefficiente:
lo specialista inviato da Cavour nelle Due
Sicilie, per rimettervi ordine, riferì di un «mirabile
organismo finanziario» e propose di copiarla, in una
relazione che è «una lode sincera e continua».
Mentre «il modello che presiede alla nostra
amministrazione», dal 1861, «è quello franco-napoleonico, la
cui versione sabauda è stata modulata dall’unità in avanti in
adesione a una miriade di pressioni localistiche e
corporative»
(Marco Meriggi, Breve storia dell’Italia settentrionale).
Ignoravo che lo stato unitario tassò ferocemente i milioni
di disperati meridionali che emigravano in America, per
assistere economicamente gli armatori delle navi che li
trasportavano e i settentrionali che andavano a “far la
stagione”, per qualche mese in Svizzera.
Non potevo immaginare che l’Italia unita facesse pagare
più tasse a chi stentava e moriva di malaria nelle caverne
dei Sassi di Matera, rispetto ai proprietari delle ville sul
lago di Como.
Avevo già esperienza delle ferrovie peggiori al Sud che al
Nord, ma non che, alle soglie del 2000, col resto d’Italia
percorso da treni ad alta velocità, il Mezzogiorno avesse
quasi mille chilometri di ferrovia in meno che prima della
Seconda guerra mondiale (7.958 contro 8.871), quasi sempre
ancora a binario unico e con gran parte della rete non
elettrificata.
Come potevo immaginare che stessimo così male, nell’inferno
dei Borbone, che per obbligarci a entrare nel paradiso
portatoci dai piemontesi ci vollero orribili rappresaglie,
stragi, una dozzina di anni di combattimenti, leggi
speciali, stati d’assedio, lager?
E che, quando riuscirono a farci smettere di preferire la
morte al loro paradiso, scegliemmo piuttosto di emigrare a
milioni (e non era mai successo)?
Ignoravo che avrei dovuto studiare il francese, per
apprendere
di essere italiano:
«Le Royaume d’Italie est aujourd’hui un fait» annunciò
Cavour al Senato.
«Le Roi notre auguste Souverain prend pour lui-même et pour
ses successeurs le titre de Roi d’Italie.»
Credevo al Giosue Carducci delle Letture del Risorgimento
italiano:
«Né mai unità di nazione fu fatta per aspirazione
di più grandi e pure intelligenze, né con sacrifici di più
nobili e sante anime, né con maggior libero consentimento
di tutte le parti sane del popolo».
Affermazione riportata in apertura del libro (Il Risorgimento
italiano) distribuito gratuitamente dai Centri di Lettura e
Informazione a cura del ministero della Pubblica Istruzione
Direzione Generale per l’Educazione Popolare, dal 1964.
Il curatore, Alberto M. Ghisalberti, avverte che, «a un
secolo di distanza (...), la revisione critica operata dagli
storici possa suggerire interpretazioni diversamente meditate
(...) della più complessa realtà del “libero consentimento”
al quale si riferisce il poeta».
Chi sa, capisce;
chi non sa, continua a non capire.
Scoprirò poi che Carducci, privatamente, scriveva:
«A Lei pare una bella cosa questa Italia?»;
tanto che, per lui, evitare di parlarne «può anche essere
opera di carità». (Storia d’Italia, Einaudi).
Io avevo sempre creduto ai libri di storia, alla leggenda
di Garibaldi.
Non sapevo nemmeno di essere meridionale, nel senso
che non avevo mai attribuito alcun valore, positivo o
negativo, al fatto di essere nato più a Sud o più a Nord di
un altro.
Mi ritenevo solo fortunato a essere nato italiano.
E fra
gl’italiani più fortunati, perché vivevo sul mare.
A mano a mano che scoprivo queste cose, ne parlavo.
Io stupito;
gli ascoltatori increduli.
Poi, io furioso;
gli ascoltatori seccati:
esagerazioni, invenzioni e, se vere, cose vecchie.
E mi accorsi che diventavo meridionale, perché, stupidamente,
maturavo orgoglio per la geografia di cui, altrettanto
stupidamente, Bossi e complici volevano che mi vergognassi.
Loro che usano “italiano” come un insulto e
abitano la parte della penisola che fu denominata “Italia”,
quando Roma riorganizzò l’impero (quella meridionale
venne chiamata “Apulia”, dal nome della mia regione.
Ma la prima “Italia” della storia fu un pezzo di Calabria
sul
Tirreno).
Si è scritto tanto sul Sud, ma non sembra sia servito a
molto, perché «ogni battaglia contro pregiudizi
universalmente
condivisi è una battaglia persa» dice Nicholas
Humphrey (Una storia della mente).
«Perché non riprendi una delle tante pubblicazioni
meridionaliste di venti, trent’anni fa, e la ristampi tale e
quale?
Chi si accorgerebbe che del tempo è passato, inutilmente?»
suggeriva ottant’anni fa a Piero Gobetti, Tommaso Fiore che
poi, per fortuna, scrisse Un popolo di formiche.
E oggi, un economista indomito, Gianfranco Viesti (Abolire
il Mezzogiorno), allarga le braccia:
«Parlare di Mezzogiorno significa parlare del già detto, e
del già fallito».
Perché tale stato di cose è utile alla parte più forte del
paese, anche se si presenta con due nomi diversi:
“Questione meridionale”, ovvero dell’aspirazione del Sud a
uscire dalla subalternità impostagli;
e “Questione settentrionale”, di recente conio, ovvero della
volontà del Nord di mantenere la subalternità del Sud e il
redditizio vantaggio di potere conquistato con le armi e una
legislazione squilibrata.
Dopo centocinquant’anni, questo sistema rischia di spezzare
il paese.
Si sa;
e si finge di non saperlo, perché troppi sono gl’interessi
che se ne nutrono.
Così, accade che la verità venga scritta, ma non sia letta;
e se letta, non creduta;
e se creduta, non presa in considerazione;
e se presa in considerazione, non tanto da cambiare
i comportamenti, da indurre ad agire “di conseguenza”.
I meridionali si lamentano sempre e i carcerati si dicono
tutti innocenti.
Il paragone non è casuale;
nel bel libro Sull’identità meridionale, Mario Alcaro
scrive: «Si può dire che è la difesa di un imputato, di un
cittadino del Sud che cerca una risposta alle tante critiche
e accuse che gli son piovute addosso».
Il pregiudizio (pre, “prima”) è una condanna senza processo.
Sospetto che la sua persistenza eviti,
a chi lo nutre, un’ammissione di colpa.
«L’uomo è un animale mosso in modo determinante dalla colpa»
rammenta Luigi Zoja in Storia dell’arroganza.
«Un sentimento di colpa può essere spostato, non cancellato.»
E il Nord aggressore incolpa l’aggredito delle conseguenze
dell’aggressione:
rimosso il rimorso, se mai c’è stato.
Noi meridionali conosciamo bene tutto questo:
non ci indigna nemmeno più;
ci stanca:
«Senti che la gente ti capisce male, che devi parlare più
forte, gridare» spiegava Cˇechov.
«E le grida sono ripugnanti.
Parli a voce sempre più bassa, forse tra poco tacerai del
tutto.»
Fra le urla dell’altro, ormai privo del freno della vergogna
che lo rendeva civile.
Oggi, nuovi fermenti animano una ricerca di verità storica,
non solo meridionale, che viene dal basso, più che dalle
aule universitarie o dalla politica, dalle istituzioni.
Non è facile capire dove questo possa portare;
se a un revanscismo uguale e opposto al razzismo nordista di
Lega e collaterali, o a una comune crescita di consapevolezza
e conoscenza:
un nuovo meridionalismo non solo meridionale (e sarebbe
un ritorno alle origini, perché nacque nordico, specie
lombardo), per ridare un’anima decente a un’Italia che l’ha
smarrita, nel fallimento della politica e la sua riduzione a
furia predatoria di egoismi personali e territoriali.
Temo, per il pessimismo della ragione e perché i segni vanno
in quella direzione, che il peggio prevalga, proprio “per” e
non “nonostante” i suoi difetti (è la legge di Greg e Galton,
che ricordo in Elogio dell’imbecille).
Ma, per l’ottimismo della volontà, spero nel contrario
(nemmeno il peggio dura per sempre;
e anche i peggiori muoiono).
09 aprile alle ore 12.52
tratto dal libro terroni di pino aprile
http://www.facebook.com/topic.php?uid=150908502208&topic=17798
Lo stato italiano è stato una feroce dittatura che ha messo a
ferro e fuoco l'Italia meridionale, squartato, fucilato,
seppellito vivi poveri contadini che scrittori salariati
hanno infamato col marchio di briganti
(A. GRAMSCI 1920 DA ORDINE NUOVO)
nazisti fecero a Marzabotto.
Ma tante volte, per anni.
E cancellarono per sempre molti paesi, in operazioni
“anti-terrorismo”, come i marines in Iraq.
Non sapevo che, nelle rappresaglie, si concessero libertà
di stupro sulle donne meridionali, come nei Balcani, durante
il conflitto etnico;
o come i marocchini delle truppe
francesi, in Ciociaria, nell’invasione, da Sud, per redimere
l’Italia dal fascismo (ogni volta che viene liberato, il
Mezzogiorno ci rimette qualcosa).
Ignoravo che, in nome dell’Unità nazionale, i fratelli
d’Italia ebbero pure diritto di saccheggio delle città
meridionali, come i Lanzichenecchi a Roma.
E che praticarono la tortura, come i marines ad Abu
Ghraib, i francesi in Algeria, Pinochet in Cile.
Non sapevo che in Parlamento, a Torino, un deputato ex
garibaldino paragonò la ferocia e le stragi piemontesi al
Sud a quelle di «Tamerlano, Gengis Khan e Attila».
Un altro preferì tacere «rivelazioni di cui l’Europa
potrebbe
inorridire».
E Garibaldi parlò di «cose da cloaca».
Né che si incarcerarono i meridionali senza accusa, senza
processo e senza condanna, come è accaduto con gl’islamici
a Guantánamo.
Lì qualche centinaio, terroristi per definizione, perché
musulmani; da noi centinaia di migliaia,
briganti per definizione, perché meridionali.
E, se bambini, briganti precoci;
se donne, brigantesse o mogli, figlie, di briganti;
o consanguinei di briganti (sino al terzo grado di
parentela);
o persino solo paesani o sospetti tali.
Tutto a norma di legge, si capisce, come in Sudafrica, con
l’apartheid.
Io credevo che i briganti fossero proprio briganti, non
anche ex soldati borbonici e patrioti alla guerriglia per
difendere il proprio paese invaso.
Non sapevo che il paesaggio del Sud divenne come quello
del Kosovo, con fucilazioni in massa, fosse comuni, paesi
che bruciavano sulle colline e colonne di decine di migliaia
di profughi in marcia.
Non volevo credere che i primi campi di concentramento
e sterminio in Europa li istituirono gli italiani del Nord,
per tormentare e farvi morire gli italiani del Sud, a
migliaia, forse decine di migliaia (non si sa, perché li
squagliavano nella calce), come nell’Unione Sovietica di
Stalin.
Ignoravo che il ministero degli Esteri dell’Italia unita
cercò per anni «una landa desolata», fra Patagonia, Borneo
e altri sperduti lidi, per deportarvi i meridionali e
annientarli lontano da occhi indiscreti.
Né sapevo che i fratelli d’Italia arrivati dal Nord
svuotarono
le ricche banche meridionali, regge, musei, case private
(rubando persino le posate), per pagare i debiti del Piemonte
e costituire immensi patrimoni privati.
E mai avrei immaginato che i Mille fossero quasi tutti
avanzi di galera.
Non sapevo che, a Italia così unificata, imposero una tassa
aggiuntiva ai meridionali, per pagare le spese della guerra
di conquista del Sud, fatta senza nemmeno dichiararla.
Ignoravo che l’occupazione del Regno delle Due Sicilie
fosse stata decisa, progettata, protetta da Inghilterra e
Francia, e parzialmente finanziata dalla massoneria (detto
da Garibaldi, sino al gran maestro Armando Corona, nel
1988).
Né sapevo che il Regno delle Due Sicilie fosse, fino al
momento dell’aggressione, uno dei paesi più industrializzati
del mondo (terzo, dopo Inghilterra e Francia, prima di
essere invaso).
E non c’era la “burocrazia borbonica”, intesa quale caotica
e inefficiente:
lo specialista inviato da Cavour nelle Due
Sicilie, per rimettervi ordine, riferì di un «mirabile
organismo finanziario» e propose di copiarla, in una
relazione che è «una lode sincera e continua».
Mentre «il modello che presiede alla nostra
amministrazione», dal 1861, «è quello franco-napoleonico, la
cui versione sabauda è stata modulata dall’unità in avanti in
adesione a una miriade di pressioni localistiche e
corporative»
(Marco Meriggi, Breve storia dell’Italia settentrionale).
Ignoravo che lo stato unitario tassò ferocemente i milioni
di disperati meridionali che emigravano in America, per
assistere economicamente gli armatori delle navi che li
trasportavano e i settentrionali che andavano a “far la
stagione”, per qualche mese in Svizzera.
Non potevo immaginare che l’Italia unita facesse pagare
più tasse a chi stentava e moriva di malaria nelle caverne
dei Sassi di Matera, rispetto ai proprietari delle ville sul
lago di Como.
Avevo già esperienza delle ferrovie peggiori al Sud che al
Nord, ma non che, alle soglie del 2000, col resto d’Italia
percorso da treni ad alta velocità, il Mezzogiorno avesse
quasi mille chilometri di ferrovia in meno che prima della
Seconda guerra mondiale (7.958 contro 8.871), quasi sempre
ancora a binario unico e con gran parte della rete non
elettrificata.
Come potevo immaginare che stessimo così male, nell’inferno
dei Borbone, che per obbligarci a entrare nel paradiso
portatoci dai piemontesi ci vollero orribili rappresaglie,
stragi, una dozzina di anni di combattimenti, leggi
speciali, stati d’assedio, lager?
E che, quando riuscirono a farci smettere di preferire la
morte al loro paradiso, scegliemmo piuttosto di emigrare a
milioni (e non era mai successo)?
Ignoravo che avrei dovuto studiare il francese, per
apprendere
di essere italiano:
«Le Royaume d’Italie est aujourd’hui un fait» annunciò
Cavour al Senato.
«Le Roi notre auguste Souverain prend pour lui-même et pour
ses successeurs le titre de Roi d’Italie.»
Credevo al Giosue Carducci delle Letture del Risorgimento
italiano:
«Né mai unità di nazione fu fatta per aspirazione
di più grandi e pure intelligenze, né con sacrifici di più
nobili e sante anime, né con maggior libero consentimento
di tutte le parti sane del popolo».
Affermazione riportata in apertura del libro (Il Risorgimento
italiano) distribuito gratuitamente dai Centri di Lettura e
Informazione a cura del ministero della Pubblica Istruzione
Direzione Generale per l’Educazione Popolare, dal 1964.
Il curatore, Alberto M. Ghisalberti, avverte che, «a un
secolo di distanza (...), la revisione critica operata dagli
storici possa suggerire interpretazioni diversamente meditate
(...) della più complessa realtà del “libero consentimento”
al quale si riferisce il poeta».
Chi sa, capisce;
chi non sa, continua a non capire.
Scoprirò poi che Carducci, privatamente, scriveva:
«A Lei pare una bella cosa questa Italia?»;
tanto che, per lui, evitare di parlarne «può anche essere
opera di carità». (Storia d’Italia, Einaudi).
Io avevo sempre creduto ai libri di storia, alla leggenda
di Garibaldi.
Non sapevo nemmeno di essere meridionale, nel senso
che non avevo mai attribuito alcun valore, positivo o
negativo, al fatto di essere nato più a Sud o più a Nord di
un altro.
Mi ritenevo solo fortunato a essere nato italiano.
E fra
gl’italiani più fortunati, perché vivevo sul mare.
A mano a mano che scoprivo queste cose, ne parlavo.
Io stupito;
gli ascoltatori increduli.
Poi, io furioso;
gli ascoltatori seccati:
esagerazioni, invenzioni e, se vere, cose vecchie.
E mi accorsi che diventavo meridionale, perché, stupidamente,
maturavo orgoglio per la geografia di cui, altrettanto
stupidamente, Bossi e complici volevano che mi vergognassi.
Loro che usano “italiano” come un insulto e
abitano la parte della penisola che fu denominata “Italia”,
quando Roma riorganizzò l’impero (quella meridionale
venne chiamata “Apulia”, dal nome della mia regione.
Ma la prima “Italia” della storia fu un pezzo di Calabria
sul
Tirreno).
Si è scritto tanto sul Sud, ma non sembra sia servito a
molto, perché «ogni battaglia contro pregiudizi
universalmente
condivisi è una battaglia persa» dice Nicholas
Humphrey (Una storia della mente).
«Perché non riprendi una delle tante pubblicazioni
meridionaliste di venti, trent’anni fa, e la ristampi tale e
quale?
Chi si accorgerebbe che del tempo è passato, inutilmente?»
suggeriva ottant’anni fa a Piero Gobetti, Tommaso Fiore che
poi, per fortuna, scrisse Un popolo di formiche.
E oggi, un economista indomito, Gianfranco Viesti (Abolire
il Mezzogiorno), allarga le braccia:
«Parlare di Mezzogiorno significa parlare del già detto, e
del già fallito».
Perché tale stato di cose è utile alla parte più forte del
paese, anche se si presenta con due nomi diversi:
“Questione meridionale”, ovvero dell’aspirazione del Sud a
uscire dalla subalternità impostagli;
e “Questione settentrionale”, di recente conio, ovvero della
volontà del Nord di mantenere la subalternità del Sud e il
redditizio vantaggio di potere conquistato con le armi e una
legislazione squilibrata.
Dopo centocinquant’anni, questo sistema rischia di spezzare
il paese.
Si sa;
e si finge di non saperlo, perché troppi sono gl’interessi
che se ne nutrono.
Così, accade che la verità venga scritta, ma non sia letta;
e se letta, non creduta;
e se creduta, non presa in considerazione;
e se presa in considerazione, non tanto da cambiare
i comportamenti, da indurre ad agire “di conseguenza”.
I meridionali si lamentano sempre e i carcerati si dicono
tutti innocenti.
Il paragone non è casuale;
nel bel libro Sull’identità meridionale, Mario Alcaro
scrive: «Si può dire che è la difesa di un imputato, di un
cittadino del Sud che cerca una risposta alle tante critiche
e accuse che gli son piovute addosso».
Il pregiudizio (pre, “prima”) è una condanna senza processo.
Sospetto che la sua persistenza eviti,
a chi lo nutre, un’ammissione di colpa.
«L’uomo è un animale mosso in modo determinante dalla colpa»
rammenta Luigi Zoja in Storia dell’arroganza.
«Un sentimento di colpa può essere spostato, non cancellato.»
E il Nord aggressore incolpa l’aggredito delle conseguenze
dell’aggressione:
rimosso il rimorso, se mai c’è stato.
Noi meridionali conosciamo bene tutto questo:
non ci indigna nemmeno più;
ci stanca:
«Senti che la gente ti capisce male, che devi parlare più
forte, gridare» spiegava Cˇechov.
«E le grida sono ripugnanti.
Parli a voce sempre più bassa, forse tra poco tacerai del
tutto.»
Fra le urla dell’altro, ormai privo del freno della vergogna
che lo rendeva civile.
Oggi, nuovi fermenti animano una ricerca di verità storica,
non solo meridionale, che viene dal basso, più che dalle
aule universitarie o dalla politica, dalle istituzioni.
Non è facile capire dove questo possa portare;
se a un revanscismo uguale e opposto al razzismo nordista di
Lega e collaterali, o a una comune crescita di consapevolezza
e conoscenza:
un nuovo meridionalismo non solo meridionale (e sarebbe
un ritorno alle origini, perché nacque nordico, specie
lombardo), per ridare un’anima decente a un’Italia che l’ha
smarrita, nel fallimento della politica e la sua riduzione a
furia predatoria di egoismi personali e territoriali.
Temo, per il pessimismo della ragione e perché i segni vanno
in quella direzione, che il peggio prevalga, proprio “per” e
non “nonostante” i suoi difetti (è la legge di Greg e Galton,
che ricordo in Elogio dell’imbecille).
Ma, per l’ottimismo della volontà, spero nel contrario
(nemmeno il peggio dura per sempre;
e anche i peggiori muoiono).
09 aprile alle ore 12.52
tratto dal libro terroni di pino aprile
http://www.facebook.com/topic.php?uid=150908502208&topic=17798
Lo stato italiano è stato una feroce dittatura che ha messo a
ferro e fuoco l'Italia meridionale, squartato, fucilato,
seppellito vivi poveri contadini che scrittori salariati
hanno infamato col marchio di briganti
(A. GRAMSCI 1920 DA ORDINE NUOVO)
--
CINQUE X Mille ad EMERGENGY
Codice 971 471 101 55
CINQUE X Mille ad EMERGENGY
Codice 971 471 101 55